Secondo l’Organizzazione Mondiale della Salute, l’espressione “mutilazioni genitali femminili” (MGF) si riferisce a tutte le “pratiche di rimozione parziale o totale dei genitali femminili esterni o ad altre alterazioni indotte agli organi genitali femminili, effettuate per ragioni culturali o altre ragioni non terapeutiche”.[1]
Il diritto internazionale considera queste operazioni come violazioni dei diritti umani in quanto abusi, torture e trattamenti inumani che comportano traumi e gravi conseguenze alla salute psico-fisica e sessuale delle bambine e delle donne che le subiscono.
Il dossier congiunto, pubblicato nel 2008, chiamato “Eliminating Female genital mutilation – An interagency statement”[2] (OHCHR, UNAIDS, UNDP, UNECA, UNESCO, UNFPA, UNHCR, UNICEF, UNIFEM, WHO), distingue quattro tipologie di mutilazioni genitali:
Gli interventi vengono praticati da una donna del villaggio “esperta” tra le levatrici tradizionali, che propone il suo servizio a pagamento. Questa donna utilizza tecniche tramandate in ambito familiare e, la maggior parte delle volte, non ha conoscenze chirurgiche.
Gli strumenti impiegati sono rudimentali e ordinari come pezzi di vetro, lamette, coltelli, rasoi e forbici, molto spesso non sterilizzati; inoltre il luogo adibito alla pratica non è asettico.
Generalmente non viene utilizzato nessun anestetico e il fatto che le vittime riescano a sopportare le conseguenze dolorose dell’intervento dimostra il loro coraggio e la loro forza, risultando motivo di orgoglio per i familiari e i membri della comunità.
Solitamente le madri e le nonne rimangono con le ragazze durante l’intervento e ne prendono parte attivamente aiutando la levatrice.
In alcuni casi vengono organizzate cerimonie che coinvolgono l’intera comunità poiché la mutilazione è considerata un rito di passaggio alla vita adulta.
Negli ultimi anni, nelle aree urbane dei Paesi colpiti da questo fenomeno, si sta diffondendo la medicalizzazione dell’intervento. Secondo i dati Unicef circa 200 milioni di donne, circa il 34% delle adolescenti e il 16% delle donne comprese tra i 45 e i 49 anni, hanno subito questa pratica per mano di un operatore sanitario[3].
Anche se le operazioni sono realizzate da professionisti sanitari, si tratta comunque di mutilazioni che intaccano l’integrità fisica e la salute delle donne e delle ragazze, ed è per questo che vengono considerate ugualmente violazioni dei diritti umani.
“Medicalizzare la pratica non la rende sicura, morale o difendibile” (Direttore dell’UNICEF Henrietta Fore).
I motivi che spingono a ricorrere alle mutilazioni genitali femminili sono molteplici.
Troviamo ragioni sessuali, collegate alla volontà di soggiogare la donna, ridurne la sessualità e assicurarne la “purezza”; ragioni sociologiche legate al passaggio dall’adolescenza alla vita adulta; ragioni religiose e culturali conseguenti a errate credenze secondo cui la pratica delle MGF sia prevista dai testi religiosi (Sunna).
In alcune culture si ricorre alle mutilazioni per motivi igienici ed estetici, poiché i genitali femminili sono considerati portatori di infezioni od osceni; o per motivi sanitari, secondo i quali le mutilazioni favoriscono la fertilità delle donne e la sopravvivenza del bambino.
Il fenomeno delle MGF è generalmente considerato una questione di genere, questo perché le principali vittime di queste atroci pratiche sono donne e bambine dai 15 ai 50 anni.
Tuttavia l’età e il tipo di mutilazione dipende dalla cultura e dalla comunità di appartenenza; in alcune parti dell’Africa e dell’Asia come in Eritrea, Mali e Yemen le bambine vengono operate a pochi giorni dalla nascita o a meno di un anno di vita.
In base alle stime dell’Onu, più di 250 milioni di donne e ragazze nel mondo sono state vittime di MGF e si calcola che entro il 2030 siano circa 68 milioni le ragazze e le donne che rischiano di subire questa pratica.[4]
Le vittime delle mutilazioni genitali femminili subiscono atti umilianti, dolorosi e soprattutto rischiosi per la loro salute fisica e mentale.
Le conseguenze a cui vanno incontro le donne e le ragazze sono svariate.
Oltre al dolore indescrivibile che provano durante l’intervento, le MGF possono essere responsabili di: shock emorragico e neurogeno che può addirittura portare alla morte, infezioni generalizzate, ritenzione urinaria e ulcerazione delle zone interessate.
Altre gravi conseguenze nel lungo periodo sono: calcoli e cisti; crescita abnorme del tessuto cicatriziale; aumento del rischio di contrarre HIV, AIDS, epatite e altre malattie veicolate dal sangue; forti dolori mestruali e rapporti sessuali complicati; inferitlità; maggiore rischio di mortalità durante il parto; maggiore rischio di decessi neonatali.
L’evento è un grande trauma anche a livello psicologico. Il dolore e lo shock, che le donne provano durante la procedura, sono così intensi da provocare futuri disturbi comportamentali, ansia e depressione.
Sono quasi quaranta i Paesi in cui la pratica delle mutilazioni genitali femminili è ancora attiva. Secondo i dati raccolti e forniti, all’incirca trenta stati appartengono al continente africano, nel quale si concentra l’80% dei casi di MGF.
I dieci paesi africani dove le percentuali di donne e ragazze vittime di MGF risultano particolarmente rilevanti sono: Somalia (98%), Guinea (97%), Gibuti (93%), Sierra Leone (90%), Mali (89%), Egitto (87%), Sudan (87%), Eritrea (8%), Burkina Faso (76%), Gambia (75%).[5]
In Gambia il 56% delle bambine fino ai 14 anni ha subito mutilazioni genitali. Percentuali simili vengono riscontrate anche in Mauritania, Guinea, Eritrea e Sudan.
Il fenomeno si presenta anche in alcuni Paesi del Medio Oriente, dell’Asia e dell’America Latina; inoltre, per effetto dell’immigrazione, si registrano casi in Europa, Australia, Canada e Stati Uniti, dove gli episodi avvengono nella più totale illegalità, quindi i dati sono difficilmente registrabili.
Grazie all’impegno a livello internazionale, europeo e nazionale, e alla sempre più alta istruzione e informazione riguardo queste pratiche, la percentuale di ragazze e donne dei Paesi ad alta incidenza che si oppongono a questa pratica è raddoppiata, con conseguente diminuzione della probabilità di donne e bambine di essere sottoposte a mutilazioni genitali femminili rispetto a due decenni fa.
I principali strumenti internazionali e nazionali per il contrasto alle mutilazioni sono: il Protocollo di Maputo, le Risoluzioni delle Nazioni Unite e gli interventi nazionali dei Paesi particolarmente colpiti dal fenomeno.
Il Protocollo di Maputo, adottato dall’Unione Africana l’11 luglio 2003, è il primo trattato sui diritti delle donne in Africa a denunciare e condannare ufficialmente tutte le pratiche tradizionali lesive dell’integrità fisica e psichica delle donne, come le mutilazioni genitali femminili.[6]
Anche le Nazioni Unite si sono schierate contro queste pratiche. Il report del 2008 del Relatore Speciale sulla Tortura ed altri Trattamenti o Pene Crudeli, Inumani e Degradanti dichiara che “tutte le operazioni, di tipo culturale e non, che causano sofferenza, dolore e compromettono l’integrità di una persona, debbano essere considerate come atti di tortura sulla base del diritto consuetudinario”.
Inoltre, l’Assemblea Generale ha presentato due Risoluzioni[7] a riguardo, nelle quali condanna globalmente le MGF e afferma l’impossibilità di utilizzare le tradizioni, le credenze religiose o i costumi come giustificazioni per causare ogni qual forma di violenza.
Circa ventuno Paesi africani hanno pubblicamente dichiarato di voler debellare le tradizionali pratiche di mutilazione. Tra queste troviamo il Sudan, il quale ha approvato recentemente un decreto che implementa il Codice penale vietando le MGF; il Gambia e la Nigeria che nel 2015 hanno messo fuori legge tali pratiche e; l’Egitto che nel 2016 ha presentato una legge a contrasto di tale violenza. Purtroppo, considerando la profonda e radicata tradizione culturale su cui si basa tale fenomeno e analizzando i dati delle vittime, questo impegno nazionale a contrasto delle MGF risulta solamente “su carta” poiché i Paesi sopra citati sono ancora i luoghi con il più alto tasso di vittime di mutilazioni genitali.
Ruolo altrettanto importante è riservato all’informazione. L’educazione e l’empowerment femminile sono fattori determinanti per il contrasto al fenomeno delle mutilazioni genitali femminili. Più le ragazze e le donne sono coscienti dei rischi e della natura del fenomeno come violazione dei loro diritti, tanto meno sono favorevoli ad accettarli.
[1] Joint statement WHO/UNICEF/UNFPA, Ginevra, 1997.
[2] World Health Organization, Eliminating Female genital mutilation, 2008 https://iris.who.int/bitstream/handle/10665/43839/9789241596442_eng.pdf?sequence=1
[3] UNICEF, Mutilazioni genitali, la medicalizzazione non riduce il danno: 52 milioni vittime per mano di un dottore, 2020 https://www.unicef.it/media/mutilazioni-genitali-la-medicalizzazione-non-riduce-il-danno/
[4] La Repubblica, 2022 (dati UNICEF e ONU) https://www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2022/02/05/news/mutilazioni_genitali_femminili-336551029/
[5] Act!onaid, Mutilazioni genitali femminili: in cosa consistono davvero?, (dati WHO, UNICEF) https://www.actionaid.it/informati/notizie/mutilazioni-genitali-femminili-africa
[6] Protocollo di Maputo, Art 5.b https://unipd-centrodirittiumani.it/it/strumenti_internazionali/Protocollo-alla-Carta-Africana-sui-diritti-delluomo-e-dei-popoli-sui-diritti-delle-donne-in-Africa-2003/83
[7] Assemblea Generale, Risoluzione 62/133 del 2007: Intensification of efforts to eliminate all forms of violence against women; e Risoluzione A/Res/67/146 del 2012: FGM resolution: Intensifying global efforts for the elimination of female genital mutilation.
Elisabetta Bizzotto