Mai come quest’anno, la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne che si celebra il 25 novembre si sta concentrando, nel nostro Paese, in modo particolare sugli abusi online. Perché se è vero che siamo stati abituati ad associare l’idea di “violenza” a un atto fisico come uno stupro o delle botte, la realtà è che i fatti delle ultime settimane fanno capire come ci siano molti altri generi di molestie cui prestare attenzione: molto più subdoli, a volte difficilmente individuabili, ma estremamente diffusi e pericolosi.
Mai come quest’anno, la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne che si celebra il 25 novembre si sta concentrando, nel nostro Paese, in modo particolare sugli abusi online. Perché se è vero che siamo stati abituati ad associare l’idea di “violenza” a un atto fisico come uno stupro o delle botte, la realtà è che i fatti delle ultime settimane fanno capire come ci siano molti altri generi di molestie cui prestare attenzione: molto più subdoli, a volte difficilmente individuabili, ma estremamente diffusi e pericolosi.
Viene definito “revenge porn” la condivisione non consensuale di materiale intimo. In molti preferiscono utilizzare altri termini, come “image-based abuse”, perché la connotazione di “vendetta” potrebbe portare a giustificare questo genere di azioni. In Italia, ad ogni modo, questo è il termine più diffuso, anche in seguito alle diverse proposte di legge degli ultimi anni che hanno poi portato a definire ufficialmente il revenge porn come reato. Ai sensi dell’articolo 612 ter del codice penale, oggi diffondere materiale intimo senza consenso è quindi punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro.
Uno dei veicoli principali di diffusione del revenge porn è Telegram, dove esistono purtroppo diversi gruppi in cui ogni giorno gli utenti si scambiano materiale privato, spesso anche pedopornografico.
Si definisce victim blaming l’atteggiamento per cui si tende a colpevolizzare la vittima di un reato, suddividendo la responsabilità tra questa e l’aggressore. Sono esempi di victim blaming, ad esempio, le domande che spesso vengono rivolte a una vittima di violenza sessuale in merito all’abbigliamento.
In diversi casi, questo meccanismo ha portato a sentenze che hanno fatto molto discutere, come quella che in questi giorni ha assolto uno stupratore in Perù perché la vittima indossava degli slip rossi, segnale secondo i giudici che la donna fosse quindi “disponibile a fare sesso”. La sentenza è stata per fortuna rigettata in seguito. In Italia, nel 1999 abbiamo avuto la cosiddetta “sentenza dei jeans”: in quell’episodio, secondo la Corte di Cassazione la violenza sessuale non poteva essere avvenuta perché la vittima indossava jeans attillati, che non sarebbe stato possibile togliere “senza la fattiva collaborazione di chi li porta”.
Strettamente correlato al victim blaming c’è poi il fenomeno chiamato slut shaming, cui assistiamo in particolare negli episodi di revenge porn. Quando un certo tipo di contenuti intimi viene diffuso senza consenso, c’è infatti la tendenza ad accusare la donna sostenendo che non avrebbe dovuto fare/inviare quelle foto o video.
Lo slut shaming ha le sue radici in una società maschilista, che elogia la virilità nell’uomo ma al contrario condanna il desiderio sessuale femminile. Le donne vengono giudicate colpevoli se vivono appieno la propria sessualità, poiché significa trasgredire rispetto all’ideale di “purezza” cui dovrebbero sottostare. Ed è proprio questo a rendere ancora così devastante per una donna l’essere vittima di revenge porn: quando una foto o un video intimo vengono diffusi, si tende a elogiare l’uomo per la sua prestazione e a criticare la donna per essere stata una sgualdrina. Fino a estremi paradossali come nella vicenda di Torino: la vittima di revenge porn si ritrova ad essere licenziata, perché alcuni genitori non riescono a tollerare che la maestra dei loro figli abbia una normale vita sessuale.
Strettamente correlato al victim blaming c’è poi il fenomeno chiamato slut shaming, cui assistiamo in particolare negli episodi di revenge porn. Quando un certo tipo di contenuti intimi viene diffuso senza consenso, c’è infatti la tendenza ad accusare la donna sostenendo che non avrebbe dovuto fare/inviare quelle foto o video.
Lo slut shaming ha le sue radici in una società maschilista, che elogia la virilità nell’uomo ma al contrario condanna il desiderio sessuale femminile. Le donne vengono giudicate colpevoli se vivono appieno la propria sessualità, poiché significa trasgredire rispetto all’ideale di “purezza” cui dovrebbero sottostare. Ed è proprio questo a rendere ancora così devastante per una donna l’essere vittima di revenge porn: quando una foto o un video intimo vengono diffusi, si tende a elogiare l’uomo per la sua prestazione e a criticare la donna per essere stata una sgualdrina. Fino a estremi paradossali come nella vicenda di Torino: la vittima di revenge porn si ritrova ad essere licenziata, perché alcuni genitori non riescono a tollerare che la maestra dei loro figli abbia una normale vita sessuale.
Tutti i comportamenti descritti fin qui fanno in qualche modo parte di un contesto più generale, definito cultura dello stupro. Una società che insulta una donna di potere in quanto donna e non, ad esempio, per le sue effettive capacità, che accusa una vittima di violenza di “essersela cercata”, che denigra la sessualità femminile come qualcosa di impuro, e che utilizza strumenti come il revenge porn per distruggere la reputazione di una persona, mette in atto una lunga serie di comportamenti inconsci volti a giustificare sempre e comunque l’uomo/patriarca.
Le radici di questa narrazione tossica sono da ricercarsi, di nuovo, in una società maschilista che tende a considerare la donna come un oggetto sessuale a disposizione del piacere dell’uomo, da sottomettere e controllare. Anche la violenza sulle donne viene considerata in certi casi un comportamento “normale”: complimenti allusivi, palpeggiamenti, pressioni sul lavoro, sono stati a lungo ritenuti qualcosa di assolutamente naturale, e solo di recente si è iniziato ad inquadrarli come molestie. Il percorso per superare la cultura dello stupro sarà quindi lungo, e dovrà passare prima di tutto dall’educazione.
In Protection4Kids, operiamo da sempre contro la violenza in rete: solo nell’ultimo anno abbiamo denunciato centinaia di account lesivi. Se sei stata/o vittima di diffusione non consensuale di materiale intimo o di altre violenze in rete, contattaci via mail a info@protection4kids.com e sarai richiamata/o al più presto da uno dei nostri esperti.